In questi giorni successivi all'ennesima strage terroristica, pubblichiamo i ricordi della nostra ostetrica Laura Castellarin, partita ad agosto come personale di supporto della Fondazione Rava su nave Vega della Marina Militare e prossima ad una nuova partenza. Scegliamo di farlo oggi per affermare con forza che il terrorismo che temiamo è lo stesso dal quale scappano i migranti.
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Lunedì 17 agosto 2015
Parto con lo
zaino, un po’ me lo sento che sarà un’avventura. Il destino
vuole che possa avere la fortuna di avvicinarmi piano a questa
realtà. Il quarto giorno ci viene chiesto di raggiungere un
“bersaglio” sul mar Libico. Navighiamo velocemente per
raggiungere l’imbarcazione e, finalmente l'annuncio che pone un
limite all'allerta: “Prepararsi per il ruolo SAR”. Indosso quegli
insopportabili DPI che diventeranno il mio abito per due giorni e
mezzo, e mi reco sul ponte. Eccolo li il barcone, è vero questa
volta, non è una foto sul web. Come mi sento? Come si chiama questa
cosa che sento? Devo starci dentro un attimo per capire ma poi la
riesco a definire: è angoscia. Io con le mie certezze davanti a loro
con la loro storia. Cosa succederà ora che ci stiamo incontrando
davvero? Iniziano a salire e non c'è più tempo per pensare, tutto
si dilegua per ricomparire solo al rientro a casa. Salgono e sono
corpi.
Corpi senza identità. Anime che hanno dovuto lasciare in Patria la
dignità, zavorra impossibile da trattenere in un viaggio simile.
Esseri umani accalcati sul ponte di catrame di una nave da guerra in
una prossimità che non conosce nazionalità, religione, stato
sociale, tutti ugualmente spinti dal desiderio di un futuro migliore.
Ecco cosa si fa in queste missioni: si traghettano sogni. Cerco
spazio per camminare tra quella distesa di membra che stiamo cercando
di aiutare come possibile, ne sono arrivati tanti oggi, si parla di
4000, 548 sono con noi, tra loro sette gravide, una a termine, una
con varicella, una vuole abortire perchè è stata violentata, due
neonati con condizioni serie, quella di cinque giorni con temperatura
elevatissima la trasferiremo perchè non potrebbe resistere in quelle
condizioni, quello con cefaloematoma reagisce bene, proviamo a
tenerlo. La disidratazione è il problema più grave e non è
semplice riportare equilibrio in quelle carni già così provate da
stenti precedenti. I bambini sotto i due anni, circa una quindicina,
hanno tutti diarrea, alcuni varicella, un ragazzo pelle e ossa sta
collassando, ha uno squilibrio elettrolitico che penso potrebbe
essere letale su un fisico come il suo, con quella testa tutta occhi,
la bocca che non sta chiusa, le articolazioni sproporzionate e la
massa muscolare inesistente; il polso si sente appena, la pressione
si fa fatica a rilevare per il rumore del diesel che ci fa da
sottofondo, dobbiamo reidratarlo ma le vene non si trovano che dopo
molti tentativi. Un altro ha probabilmente delle fratture alle gambe,
non si è mai alzato e ha molto dolore. So cosa dovrei fare ma so che
non si può fare. Cerco di monitorare la situazione per capire se
qualcosa sta degenerando, non possiamo curare, possiamo solo fare
primo soccorso e poca, quasi nulla prevenzione. Ci si abitua in
fretta a riconsiderare le priorità abituali, a guardare prima i
moribondi. Una donna siriana mi chiede un Benadon, ha mal di testa.
Le chiedo scusa ma non siamo nelle condizioni di poter curare queste
cose, tutti hanno mal di testa, gli uomini sono sfiniti dalla
cefalea, mi avventuro raramente nel loro settore perchè non ho
risposte per i loro sguardi, per le loro braccia tese.
In due giorni dormo circa 4 ore non consecutive. Ci provo ad andare a
letto ma non riesco a staccare la mente, ho bisogno di essere li per
verificare che le cose stiano lentamente migliorando, che insieme
alla notte, stia arrivando anche un po' di pace. Mi aiuta Merta a
tenere sotto controllo la situazione, la splendida ragazza
quattordicenne con il turbante blu che traduce in arabo il mio
inglese, le dico che sarebbe una brava ostetrica, lei mi guarda con
gli occhi che brillano e so che ci penserà davvero. È qui con i
genitori e due fratelli più piccoli, una famiglia dignitosa che ha
cresciuto figli in grado di conquistare il cuore dei Marò. Infine
terra, la vedono in lontananza e cominciano a sorridere. La nave
entra lentamente nel porto di Palermo e loro cantano. Cantano la
gioia di essere nella terra promessa, un carico umano di aspettative
legittime e represse che stanno finalmente trovando una via, una
possibilità seppur vaga di realizzazione. È il nuovo significato
che dobbiamo dare alla parola “difesa”, non c'è nulla di più
nobile di un esercito che soccorre, cura e accompagna gli individui
nel loro progetto di vita, di questo abbiamo bisogno più di ogni
altra cosa. Questo fanno i marinai oggi, a volte con orgoglio, a
volte senza capirne il senso ma chi di noi riesce davvero a capire il
senso di questo dramma? Si costruiscono una corazza fatta di
nomignoli, luoghi comuni, frasi fatte sempre uguali che aiutano a
prendere una distanza emotiva da questa tragedia che, se guardata
nella sua intierezza, toglierebbe il fiato per l'angoscia delle
storie che ci passano davanti. I marinai sono giovani uomini sotto i
trent'anni, capaci di condurre una nave di 1500 tonnellate ad
attraccare ad un porto, avvicinandosi al molo con la gentilezza di
una brezza, capaci di recuperare due naufraghi aggrappati ad un
galleggiante in mare aperto con un elicottero e un verricello, in
grado di individuare un uomo in mare attraverso gli infrarossi. Sanno
muoversi al buio i marinai e quando manca la luna il buio è così
nero da farti pensare di poterticisi perdere dentro, da farti
dubitare della tua stessa identità, da farti perdere il ricordo dei
confini del tuo corpo. Il buio, angoscia primale, paura di
scomparire. Cosa si prova a navigare su un gommone in mare aperto in
una notte senza luna? Cosa si prova a girare lo sguardo per giorni su
un guscio di noce vedendo solo un orizzonte lineare, onde, azzurro,
afa, sete, diarrea, vomito, mal di testa. Puzza di gasolio e carne
che decubita. Qualcuno muore di tanto in tanto. A volte muoiono tutti
e allora i ragazzi di trent'anni vedono quello che le loro donne non
sapranno mai. Ci vuole coraggio ad essere la famiglia di un marinaio,
bisogna sposare anche la solitudine e il silenzio perchè ci sono
cose che non si possono raccontare. Non esistono parole per
descrivere il disagio costante che si prova in ogni luogo,
l'inquietudine che non ti dà pace, quanti giorni ci vogliono questa
volta per dimenticare l'orrore? Quanti giorni per ritornare alle
priorità dei coetanei, entusiasti per le luccicanti funzioni di una
nuova applicazione? Per me, civile, è come muovermi in una
rappresentazione di un microcosmo. La gerarchia è complicata e
rinuncio presto ad impararla ma, lentamente, quasi per osmosi, inizio
a dare un senso ai gradi, un nome ai luoghi; “nostromo” non è
più un personaggio delle fiabe ma un uomo di grande spessore morale
e come lui, tanti altri di ogni età che si dedicano anima e corpo a
far vivere la nave, orgogliosi uomini di quel sud certamente più
nobile dei governi che ne abusano.
Niente cellulare sulla nave. Niente Internet. Niente sindacato.
Niente ritmo circadiano, la navigazione è un unico lungo giorno
scandito da 4 ore di turno e 8 di reperibilità, qualcuno appende un
calendario e fa le croci sui giorni come in un racconto di prigionia
di fine ottocento. Il tempo è la dimensione più dilatata nelle
cabine senza finestre, il cibo è il timer che scandisce il passaggio
dei giorni e delle ore: è domenica, Giulio ha fatto il risotto ai
frutti di mare, Goran Bregovic suona in lontananza per permetterci di
credere che sia tutto normale, per consentirci di sopportare l’idea
di navigare su un tappeto di cadaveri di quella tragedia del 18
aprile 2015 di cui ancora non conosciamo le dimensioni. Termiti e
Tremoli, due nomi di navi militari scritti sul vetro della plancia di
nave Vega, ultime silenziose sentinelle di queste vite distrutte. Non
si può ancora perdere la parola come quella volta all’isola dei
Conigli in cui il mare era disseminato di cadaveri, bisogna
continuare a credere che la vita sia bella, che il mare luccichi per
tutti i popoli della terra, che il sole splenda per sempre. Bisogna
andare avanti tra una barzelletta e uno slang, tra un giullare e un
Masaniello, tra un caffè diviso a metà e una chiamata a casa. Casa.
Gaia sta per nascere, e hanno prolungato la navigazione, speriamo di
riuscire ad esserci. Gaia dirà che il suo papà è un marinaio e per
lavoro salva la vita alla gente, per questo non c'è mai.
Torno con lo zaino e non è stata solo un’avventura. Sindrome da
rientro, ce l'ho. Mi avevano detto che avrei avuto alterazioni del
sonno, che mi sarebbe sembrato strano non dondolare...non avevo
capito che il fisico avrebbe espresso un disagio diverso da una mera
questione biologica. Parlo e improvvisamente mi devo interrompere
perchè le emozioni mi sopraffanno. Scrivo messaggi e piango, eppure
non riesco a dire a parole cosa sia stato davvero quel miscuglio
contaminante di professione, amicizie, elementi naturali, cronaca,
vita.
È navigazione. Sempre e ovunque.
Onore all'equipaggio di Nave Vega P404.
Ostetrica Laura Castellarin
Miglia nautiche percorse: 3052
Ore di moto: 373
Migranti soccorsi: 656
Corriere della Sera: "Peschereccio inabissato: 118 le salme recuperate da navi Marina Militare"RAI: "La scelta di Catia 80 miglia a sud di Lampedusa
D Repubblica: "La mia estate sulla nave dei migranti"
Il comandante Antonio Dovizio racconta al Papa l'esperienza di soccorso intrapresa con l'ostetrica Laura.
La testimonianza di Laura sul sito della Fondazione Rava
Il comandante Antonio Dovizio racconta al Papa l'esperienza di soccorso intrapresa con l'ostetrica Laura.
La testimonianza di Laura sul sito della Fondazione Rava
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