domenica 15 novembre 2015

Un traghetto per i sogni


In questi giorni successivi all'ennesima strage terroristica, pubblichiamo i ricordi della nostra ostetrica Laura Castellarin, partita ad agosto come personale di supporto della Fondazione Rava su nave Vega della Marina Militare e prossima ad una nuova partenza. Scegliamo di farlo oggi per affermare con forza che il terrorismo che temiamo è lo stesso dal quale scappano i migranti.
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 Lunedì 17 agosto 2015
Parto con lo zaino, un po’ me lo sento che sarà un’avventura. Il destino vuole che possa avere la fortuna di avvicinarmi piano a questa realtà. Il quarto giorno ci viene chiesto di raggiungere un “bersaglio” sul mar Libico. Navighiamo velocemente per raggiungere l’imbarcazione e, finalmente l'annuncio che pone un limite all'allerta: “Prepararsi per il ruolo SAR”. Indosso quegli insopportabili DPI che diventeranno il mio abito per due giorni e mezzo, e mi reco sul ponte. Eccolo li il barcone, è vero questa volta, non è una foto sul web. Come mi sento? Come si chiama questa cosa che sento? Devo starci dentro un attimo per capire ma poi la riesco a definire: è angoscia. Io con le mie certezze davanti a loro con la loro storia. Cosa succederà ora che ci stiamo incontrando davvero? Iniziano a salire e non c'è più tempo per pensare, tutto si dilegua per ricomparire solo al rientro a casa. Salgono e sono corpi.
Corpi senza identità. Anime che hanno dovuto lasciare in Patria la dignità, zavorra impossibile da trattenere in un viaggio simile. Esseri umani accalcati sul ponte di catrame di una nave da guerra in una prossimità che non conosce nazionalità, religione, stato sociale, tutti ugualmente spinti dal desiderio di un futuro migliore. Ecco cosa si fa in queste missioni: si traghettano sogni. Cerco spazio per camminare tra quella distesa di membra che stiamo cercando di aiutare come possibile, ne sono arrivati tanti oggi, si parla di 4000, 548 sono con noi, tra loro sette gravide, una a termine, una con varicella, una vuole abortire perchè è stata violentata, due neonati con condizioni serie, quella di cinque giorni con temperatura elevatissima la trasferiremo perchè non potrebbe resistere in quelle condizioni, quello con cefaloematoma reagisce bene, proviamo a tenerlo. La disidratazione è il problema più grave e non è semplice riportare equilibrio in quelle carni già così provate da stenti precedenti. I bambini sotto i due anni, circa una quindicina, hanno tutti diarrea, alcuni varicella, un ragazzo pelle e ossa sta collassando, ha uno squilibrio elettrolitico che penso potrebbe essere letale su un fisico come il suo, con quella testa tutta occhi, la bocca che non sta chiusa, le articolazioni sproporzionate e la massa muscolare inesistente; il polso si sente appena, la pressione si fa fatica a rilevare per il rumore del diesel che ci fa da sottofondo, dobbiamo reidratarlo ma le vene non si trovano che dopo molti tentativi. Un altro ha probabilmente delle fratture alle gambe, non si è mai alzato e ha molto dolore. So cosa dovrei fare ma so che non si può fare. Cerco di monitorare la situazione per capire se qualcosa sta degenerando, non possiamo curare, possiamo solo fare primo soccorso e poca, quasi nulla prevenzione. Ci si abitua in fretta a riconsiderare le priorità abituali, a guardare prima i moribondi. Una donna siriana mi chiede un Benadon, ha mal di testa. Le chiedo scusa ma non siamo nelle condizioni di poter curare queste cose, tutti hanno mal di testa, gli uomini sono sfiniti dalla cefalea, mi avventuro raramente nel loro settore perchè non ho risposte per i loro sguardi, per le loro braccia tese.
In due giorni dormo circa 4 ore non consecutive. Ci provo ad andare a letto ma non riesco a staccare la mente, ho bisogno di essere li per verificare che le cose stiano lentamente migliorando, che insieme alla notte, stia arrivando anche un po' di pace. Mi aiuta Merta a tenere sotto controllo la situazione, la splendida ragazza quattordicenne con il turbante blu che traduce in arabo il mio inglese, le dico che sarebbe una brava ostetrica, lei mi guarda con gli occhi che brillano e so che ci penserà davvero. È qui con i genitori e due fratelli più piccoli, una famiglia dignitosa che ha cresciuto figli in grado di conquistare il cuore dei Marò. Infine terra, la vedono in lontananza e cominciano a sorridere. La nave entra lentamente nel porto di Palermo e loro cantano. Cantano la gioia di essere nella terra promessa, un carico umano di aspettative legittime e represse che stanno finalmente trovando una via, una possibilità seppur vaga di realizzazione. È il nuovo significato che dobbiamo dare alla parola “difesa”, non c'è nulla di più nobile di un esercito che soccorre, cura e accompagna gli individui nel loro progetto di vita, di questo abbiamo bisogno più di ogni altra cosa. Questo fanno i marinai oggi, a volte con orgoglio, a volte senza capirne il senso ma chi di noi riesce davvero a capire il senso di questo dramma? Si costruiscono una corazza fatta di nomignoli, luoghi comuni, frasi fatte sempre uguali che aiutano a prendere una distanza emotiva da questa tragedia che, se guardata nella sua intierezza, toglierebbe il fiato per l'angoscia delle storie che ci passano davanti. I marinai sono giovani uomini sotto i  trent'anni, capaci di condurre una nave di 1500 tonnellate ad attraccare ad un porto, avvicinandosi al molo con la gentilezza di una brezza, capaci di recuperare due naufraghi aggrappati ad un galleggiante in mare aperto con un elicottero e un verricello, in grado di individuare un uomo in mare attraverso gli infrarossi. Sanno muoversi al buio i marinai e quando manca la luna il buio è così nero da farti pensare di poterticisi perdere dentro, da farti dubitare della tua stessa identità, da farti perdere il ricordo dei confini del tuo corpo. Il buio, angoscia primale, paura di scomparire. Cosa si prova a navigare su un gommone in mare aperto in una notte senza luna? Cosa si prova a girare lo sguardo per giorni su un guscio di noce vedendo solo un orizzonte lineare, onde, azzurro, afa, sete, diarrea, vomito, mal di testa. Puzza di gasolio e carne che decubita. Qualcuno muore di tanto in tanto. A volte muoiono tutti e allora i ragazzi di trent'anni vedono quello che le loro donne non sapranno mai. Ci vuole coraggio ad essere la famiglia di un marinaio, bisogna sposare anche la solitudine e il silenzio perchè ci sono cose che non si possono raccontare. Non esistono parole per descrivere il disagio costante che si prova in ogni luogo, l'inquietudine che non ti dà pace, quanti giorni ci vogliono questa volta per dimenticare l'orrore? Quanti giorni per ritornare alle priorità dei coetanei, entusiasti per le luccicanti funzioni di una nuova applicazione? Per me, civile, è come muovermi in una rappresentazione di un microcosmo. La gerarchia è complicata e rinuncio presto ad impararla ma, lentamente, quasi per osmosi, inizio a dare un senso ai gradi, un nome ai luoghi; “nostromo” non è più un personaggio delle fiabe ma un uomo di grande spessore morale e come lui, tanti altri di ogni età che si dedicano anima e corpo a far vivere la nave, orgogliosi uomini di quel sud certamente più nobile dei governi che ne abusano.
Niente cellulare sulla nave. Niente Internet. Niente sindacato. Niente ritmo circadiano, la navigazione è un unico lungo giorno scandito da 4 ore di turno e 8 di reperibilità, qualcuno appende un calendario e fa le croci sui giorni come in un racconto di prigionia di fine ottocento. Il tempo è la dimensione più dilatata nelle cabine senza finestre, il cibo è il timer che scandisce il passaggio dei giorni e delle ore: è domenica, Giulio ha fatto il risotto ai frutti di mare, Goran Bregovic suona in lontananza per permetterci di credere che sia tutto normale, per consentirci di sopportare l’idea di navigare su un tappeto di cadaveri di quella tragedia del 18 aprile 2015 di cui ancora non conosciamo le dimensioni. Termiti e Tremoli, due nomi di navi militari scritti sul vetro della plancia di nave Vega, ultime silenziose sentinelle di queste vite distrutte. Non si può ancora perdere la parola come quella volta all’isola dei Conigli in cui il mare era disseminato di cadaveri, bisogna continuare a credere che la vita sia bella, che il mare luccichi per tutti i popoli della terra, che il sole splenda per sempre. Bisogna andare avanti tra una barzelletta e uno slang, tra un giullare e un Masaniello, tra un caffè diviso a metà e una chiamata a casa. Casa. Gaia sta per nascere, e hanno prolungato la navigazione, speriamo di riuscire ad esserci. Gaia dirà che il suo papà è un marinaio e per lavoro salva la vita alla gente, per questo non c'è mai.
Torno con lo zaino e non è stata solo un’avventura. Sindrome da rientro, ce l'ho. Mi avevano detto che avrei avuto alterazioni del sonno, che mi sarebbe sembrato strano non dondolare...non avevo capito che il fisico avrebbe espresso un disagio diverso da una mera questione biologica. Parlo e improvvisamente mi devo interrompere perchè le emozioni mi sopraffanno. Scrivo messaggi e piango, eppure non riesco a dire a parole cosa sia stato davvero quel miscuglio contaminante di professione, amicizie, elementi naturali, cronaca, vita.
È navigazione. Sempre e ovunque.
Onore all'equipaggio di Nave Vega P404.

 Ostetrica Laura Castellarin

Miglia nautiche percorse: 3052
Ore di moto: 373
Migranti soccorsi: 656
Corriere della Sera: "Peschereccio inabissato: 118 le salme recuperate da navi Marina Militare"
RAI: "La scelta di Catia 80 miglia a sud di Lampedusa
 










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